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19.34, LA TERRA TREMA Il sisma del 1980 nelle testimonianze d

  • Ilaria Paone
  • 18 gen 2019
  • Tempo di lettura: 4 min


Sono le 19.34 del 23 novembre 1980, quasi tutti sono in casa, in Tv la partita del campionato di calcio di Serie A, alcuni approfittando della giornata stranamente calda decidono di trascorrerla all’aperto. Improvvisamente la tranquillità della sera viene interrotta da un forte boato e la terra inizia a tremare. Un minuto e mezzo, 90 interminabili secondi di terrore e distruzione. L’intensità registrata è di magnitudo 6.9 (X Scala Mercalli), l’epicentro è stato localizzato in Irpinia (provincia di Avellino) ma il sisma è stato chiaramente percepito in quasi tutta Italia. Le Regioni più colpite sono la Campania e la Basilicata dove interi paesi sono stati rasi al suolo.


Nei volti della gente che è riuscita a scampare al pericolo riversandosi in strada si legge tutto il terrore e lo sgomento di quanto accaduto e soprattutto l’angoscia di non ritrovare i propri cari... Ed i soccorsi tardano ad arrivare. Si parla di 2914 morti, madri, padri, figli, fratelli sepolti sotto le macerie. I feriti si stimano in quasi 9000 e sono più di 280.000 gli sfollati. Numeri enormi, come enorme è stato il terremoto che ha scosso la terra e non solo.


Tante sono le vite che il terremoto ha segnato. Nonno Giovanni (nella foto) racconta che quella sera era a casa con i suoi bambini. «Due dei figli erano piccoli. Il più grande era fuori casa. Da poco avevano cenato. In casa, la scossa di terremoto provocò la caduta dei libri dagli scaffali di una libreria. Poi cadde la libreria.

Cominciarono a lesionarsi le pareti. Alcune crollarono. Uno dei miei bambini rimase bloccato nella sua camera, la porta si era chiusa, bloccata per colpa dell'asse da stiro riposto dietro la porta.Stavamo al quarto piano, l'appartamento era tutto al buio con solo una lampada di emergenza accesa. Assalito dalla preoccupazione del crollo delle scale, pensai, scioccamente, di prendere i miei figli sotto le braccia e lanciarmi dal balcone: magari mi sarei solo spezzato le gambe, ma loro non si sarebbero fatti nulla. Fortunatamente non optai per questa soluzione e scedemmo tutti per le scale che, fortunatamente, ressero. Riuscimmo a prendere l'auto, coperta di calcinacci per il garage ormai crollato; per strada c'erano i fili dell'alta tensione che si erano staccati dai pali e scaricavano a terra l'elettricità. Sembravano dei fulmini. Passamo la notte in campagna dai parenti, dormendo in macchina».





Anche, Rosa sopravvissuta al sisma che nel 1980 ha distrutto l'Irpinia, racconta come ha vissuto il terremoto e come è riuscita a ricominciare da zero dopo che la sua casa era stata ridotta a un cumulo di macerie: «Ci vogliono anni - spiega - per recuperare la comodità, per ricostruire una casa confortevole, per riempirla di ricordi. Ma per vincere la paura di nuove scosse e per riuscire a dormire sonni tranquilli, senza incubi , non basta una vita». Nel terremoto lei ha perso la casa, le cose di famiglia, le foto, i suoi oggetti. Aveva una trentina di anni il 23 novembre 1980 quando una violenta scossa di 6.9 distrusse la campania centrale. Quella sera Rosa, che lavorava fuori dal suo paese, Castelgrande, (in provincia di Potenza) era tornata a casa dei genitori, come faceva ogni weekend. aveva appena finito di fare la doccia quando sentì quelle scosse che frantumavano i soffitti , le pareti, i pavimenti: «Non capivo cosa stesse succedendo, ma mio padre comincio a gridare "il terremoto", e io e lui, con mia madre e mia sorella, riuscimmo a scappare via, più lontano possibile».


Scapparono in una zona periferica, collinare, dove niente poteva cadergli addosso. «Tutti i superstiti erano fuggiti lì. Io ero senza una ciabatta: ne avevo persa una correndo tra le macerie. Mia sorella, con le ginocchia sanguinanti». E lì rimasero per due, tre interminabili giorni. A novembre, in Basilicata, il freddo è pungente. Ma loro, mentre facevano la conta di chi c'era ancora, quasi non lo sentivano. «Pensavo di essere stata fortunata - racconta Rosa - non avevo più niente, non un oggetto, non una foto, mani della mia famiglia c'eravamo tutti. Ed eravamo in pochi a non aver perso nessuno». La prima notte hanno dormito all'aperto. Poi qualcuno, dai paesi vicini, ha portato qualche auto (ché le loro erano state distrutte), per offrire agli sfollati un riparo dove dormire, cibo, qualche vestito. «Pi ci siamo spostati a Novasiri - prosegue il racconto - dove sono state messe a disposizione delle case di villeggiatura, fino a quando non abbiamo avuto a disposizione un prefabbricato, dove riusciva a vivere dignitosamente. E con il tempo abbiamo ceduto le rovine della nostra vecchia, confortevole casa, per acquistare un appartamento in paese».


Sembra impossibile riuscire a ricominciare senza niente, da zero. Ma ci si aggrappa alla voglia di vivere, e si va avanti: «In quei momenti, le sole cose che contano sono le persone. Gli oggetti si ricomprano, e se non si può tornare come prima, ci si arrangia diversamente. La mia famiglia ha imparato a vivere diversamente. Solo con il tempo si ripensa ai ricordi, agli oggetti preziosi, alle comodità, e sì, dispiace di non avere più nulla. Mia mamma ancora desso alle volte si arrabbia e dice "mannaggia al terremoto"». Che si è preso tutto



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