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Essere bambini nel momento sbagliato

“Noi bambine ad Auschwitz”: le sorelle Bucci, sopravvissute ai campi di sterminio, raccontano la loro storia durante l’olocausto.


Ogni anno il 27 gennaio in una ricorrenza internazionale denominata “Giornata della Memoria”, vengono commemorate le vittime della Shoah. Questo termine, nella lingua ebraica, significa ‘sciagura improvvisa’, esso equivale al termine ‘olocausto’, di etimologia greca, che rimanda la memoria ai sacrifici, sia greci che ebraici, durante i quali gli animali sacrificali venivano bruciati. Entrambi vengono utilizzati per descrivere lo sterminio sistematico da parte dei nazisti di 14 milioni di persone.

Ebrei ma anche rom, testimoni di Geova, slavi, omosessuali e tutti coloro che non erano congeniali alla razza pura ariana furono vittime di un genocidio, la cosiddetta “soluzione finale” concepita da Hitler, che ancora oggi suscita orrore e commozione, oltre che vergogna, un’azione di pura follia al di là di ogni umana comprensione. Milioni di persone di qualunque età vissero l’incubo della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio, destinate alla morte o a sperimentazioni scientifiche.

Andra e Tatiana Bucci avevano rispettivamente 4 e 6 anni quando vennero arrestate a Fiume in Croazia, insieme alla loro famiglia, e portate ad Auschwitz. Scambiate per gemelle, vennero allontanate dagli altri bambini, per essere sottoposte ad esperimenti del dottor Mengele. Questo fu uno dei motivi per cui furono lasciate in vita, oltre alla protezione di una responsabile che gli si era molto affezionata. Le due donne, nel libro “Noi bambine ad Auschwitz”, raccontano l’esperienza alla quale sono sopravvissute attraverso lo sguardo di due bambine.

Come ogni fanciullo, i ricordi passano attraverso i sensi ed il freddo è la prima immagine che viene in mente alle due protagoniste quando ritornano col pensiero a quei terribili nove mesi di prigionia. Allo stesso modo, il ricordo della libertà ha il sapore di una fetta di salame distribuita da un soldato russo accanto ad una Jeep. Il gioco, di cui è costituito il quotidiano dei bambini, sa di natura, di lotte con la neve e giochi con terra e sassolini, tutto ciò lontano dal calore materno.

È questo desiderio di rivedere la propria madre, raccontano Andria e Tatiana, che costa la vita ad alcuni bambini, tra cui Sergio, il loro cuginetto, i quali diventano oggetto di terribili sperimentazioni, come l’iniezione del virus della tubercolosi e l’esportazione delle ghiandole linfatiche tutto senza anestesia. Ancora più disumana è la morte di questi

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bambini, che verranno poi ritrovati un uno scantinato di una scuola appesi a dei ganci da macellaio.

Il racconto dei sopravvissuti, tra cui le autrici, diviene poi un racconto di dolore col quale è difficile convivere. La madre di Sergio, ad esempio, sceglie di creare una storia nella quale vi è la speranza: una storia in cui Sergio, troppo bello per essere morto, viene raccolto e protetto dai soldati russi. Un giorno, una volta cresciuto, egli busserà alla sua porta per tornare tra le sue braccia.

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